Il capitello di Via Strigno

Nel 1917 c’era, e c’è ancora, a lato della strada che collega Strigno a Spera, una cappelletta del tutto simile a quelle che, nel segno della devozione, costellano soprattutto gli incroci dei sentieri tracciati fra i campi.

Domina l’abitato di Carzano e buona parte della conca intorno a Borgo e, sul finire dell’estate di quell’anno di guerra, quella piccola costruzione con i muri segnati dalle schegge e dalle raffiche della mitraglia si trovava nella “terra di nessuno”, cioè fra la massa dei reticolati stesi davanti alle trinceee dai soldati del Regio Esercito e quelli messi a protezione delle postazioni austriache. E’ lì che il maggiore Cesare Pettorelli Lalatta del servizio informazioni incontra il comandante interinale del V° battaglione bosniaco che si dichiara irredentista e vive il dramma di coscienza di migliaia di soldati che combattevano sotto le insegne dell’Impero ma, appartenendo a ceppi linguistici e culturali diversi da quello austriaco, volevano l’indipendenza da Vienna. Ljudevit Pivko, sloveno e in pieno accordo con ufficiali e sottufficiali cechi, voleva consegnare all’esercito italiano il battaglione di soldati bosniaci che presidiava le macerie di Carzano. Pivko aveva compreso che quella zona della Valsugana era ideale per dare un durissimo colpo alla monarchia danubiana creando con una grave sconfitta militare i presupposti per garantire l’indipendenza a i popoli decisi a staccarsi dall’Austria. Attraverso quella falla gli italiani potevano forse raggiungere Trento e far crollare tutto il fronte del Tirolo ben prima che arrivassero i tragici giorni di Caporetto. Di notte al riparo di quella cappelletta, i due ufficiali, divenuti da nemici alleati, gettarono le basi di quello che fu il Sogno di Carzano.Mai, su nessun fronte della Grande Guerra, un esercito si trovò davanti ad un’occasione tanto straordinaria, ad un passo da una vittoria che, forse, poteva essere decisiva.

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Mercoledì, 11 Febbraio 2015 - Ultima modifica: Venerdì, 26 Febbraio 2016